Visitare il laboratorio di Dirindin (un ambiente una volta adibito a deposito antistante il rustico di famiglia) è come varcare la soglia di una realtà inaspettata, fuori dal tempo: sul verde del campo e contro il cielo si ergono, fieri e nobili, i dolmen e i caregoni. L’insieme ricorda la muta compostezza, la sacralità, le recondite ragioni di Stonehenge o dell’Isola di Pasqua.
Sulla parete esterna in mattoni del laboratorio una figura con buchi inquietanti al posto degli occhi e della bocca cerca disperatamente di liberarsi da una struttura metallica cui è avvinta. Fra l’erba si intravede il dorso di un uomo il cui resto del corpo ci si immagina interrato, in un amplesso col suolo che sembra portarlo al totale seppellimento; ad un occhio non attento può apparire come un vecchio tronco in via di disintegrazione, di trasformazione in humus.
Le prime opere risalgono al periodo di contestazione politica dell’autore, quando lavorava come operaio. I temi trattati sono quelli della prigionia e dell’alienazione. Esse rappresentano il punto di partenza del percorso artistico del Nostro, non nel senso che l’artista sviluppò questi temi, ma perché se ne discosterà a tal punto da produrre opere opposte non solo per temi ma anche per materiali e destinazioni: il tema della prigionia porterà al tema della libertà, i prodotti industriali porteranno al legno, gli spazi chiusi porteranno agli spazi aperti. Senza questa esperienza di vita ed artistica nell’autore non si sarebbe scatenato quell’anelito alla serena autenticità che caratterizza le sue opere seguenti.
Nel 1987 Guerrino lascia il lavoro in fabbrica e comincia a dedicarsi esclusivamente all’arte. Strascichi della sofferenza passata sono i costati, serie di bassorilievi colorati che raffigurano toraci maschili. Il primo è realistico anche se piuttosto alterato; i successivi sono via via sintetizzati, i solchi morbidi e profondi diventano incisioni sottili , quasi geometriche. Questi costati ricordano quelli dei cristi bizantini, la cui semplificazione della morfologia umana non riduce ma esalta la tensione della sofferenza. Nonostante l’autore sia ateo, egli non può essere stato alieno alla dominante cultura cristiana, così radicata nella società rurale nella quale Dirindin è nato. Egli è profondamente, e forse inconsapevolmente, affascinato dalla figura di Cristo o, meglio, dell’ultimo, cruento momento della sua vita, in cui un uomo diverso viene sacrificato dall’ottusità del gruppo. Ed è frequente, nella sua produzione, il richiamo alla forma della croce. In fondo anche la scultura in polistirolo sopra descritta rappresentava un uomo in croce, ma nell’atto di ribellarsi.
Con la serie di totem di Dirindin sposta il suo interesse dalla società alla natura, smorzando così la passione violenta che connotava le opere precedenti . Sono sculture longilinee, alte dai tre metri in su. Più che sculture a tutto tondo sembrano sagome ritagliate ed incise. Questa mancanza di profondi chiaroscuri, questa cautela nell’interferire con la naturale texture del legno derivano da una precisa volontà dell’autore il quale afferma: ” ho la sensazione di rovinare quelle già perfette, purissime forme di legno che trovo in natura, ma non posso sopprimere il forte istinto di manometterle, e agisco nonostante la sensazione di contaminarle di me”. Leggerezza di forme e naturalità del materiale fanno sì che queste sculture, nonostante la mole, non pesino ma si integrino perfettamente con l’ambiente (i prati e i campi nei quali sono collocate), tanto che ebbi a dire un giorno a Dirindin: “le tue sculture sembrano avere le radici”. Egli confermò spiegandomi che il suo desiderio era di collocare ad intervalli, lungo una retta che portava al mare, una serie di totem con l’intento di suggerire all’osservatore l’idea che essi fossero in qualche modo collegati tra loro per via sotterranea. Anche gli effetti cromatici sono ottenuti con materiali naturali: ruggine, terra , erba,…
La natura è dunque per Guerrino materia delle opere, fonte d’ispirazione e contesto delle opere stesse.
I caregoni sono una serie di opere che richiamano nell’aspetto i seggioloni dei bambini (caregoni in dialetto). In qualche modo tutte le opere di questo artista richiamano oggetti o strutture a noi familiari, familiari alla cultura della campagna, del borgo rurale: covoni, spaventapasseri, cataste di sterpi. di tronchi, di foglie, scope di saggina, forconi, vomeri, pale di mulini,…Trasforma questi oggetti in forme semantiche, li nobilita attraverso il suo intervento, attraverso l’aumento delle loro dimensioni. Diventano simboli di entità soprannaturali, divine, diventano divinità essi stessi, rudi, primitive.
I materiali che usa (oltre il legno) sono a tal punto di deperimento, di degradazione, che è come se fossero stati inglobati nuovamente dalla natura, dalla terra, dall’acqua. Recupera oggetti che nel loro evolversi erano già quasi ritornati alla natura, arrugginiti dalla pioggia, smussati dalla corrente di venti e di acque, corrosi da reazioni chimiche naturali, materiali organici ed inorganici molto semplici, rubati e restituiti alla natura. L’artista produce oggetti che superano se stessi, si espandono nell’ambiente e sono penetrati da esso; aggiunge qualcosa ad un luogo, ad un paesaggio, qualcosa che non potrebbe stare che lì.
Altra evoluzione della ricerca formale dell’artista è la serie di strutture in ramaglie. Con queste opere Dirindin si inoltra nella città. Percorrendo Pordenone si avverte una sorta di rete immaginaria i cui nodi sono le strutture in ramaglie di Dirindin poste nelle aiuole di svincoli stradali o disegni di queste, e che di queste sembrano i progetti, sui muri dei palazzi. E’ come se l’artista facesse della città il supporto delle sue opere, le quali non possono prescindere da essa: ognuna è un elemento di un’unica opera grandiosa. Ha ripreso il progetto dei totem concettualmente collegati per via sotterranea. Queste opere, che si ergono solitarie e fiere lungo le strade incuriosendo i passanti, richiamano alla mente strutture portanti di tende indiane, lische di grandi pesci giurassici, antichi telai abbandonati, forme contemporaneamente familiari e sublimi, domestiche e grandiose, rassicuranti ed inquietanti.
E’ così importante per l’artista che le sue opere siano collocate nel posto giusto che un giorno chiese ad un amico, che si accingeva a scalare una montagna, di portare con sé una piccola opera in ramaglie e di lasciarla sulla cima del monte. Egli non l’avrebbe più rivista, non l’avrebbe vista lassù, ma quello era il suo posto.
Con Dirindin l’opera non nasce per l’artista, non nasce per il pubblico: nasce perché deve nascere, nasce per se stessa. E come tutte le cose nate morirà perché, non protetta da mura di case o di musei, da restauri e aggiustamenti, deperirà, battuta dal vento e dalla pioggia, o divelta dalla mano di un passante.