Non mi capita spesso di vedere cose, siano esse opere d’arte figurativa, film o concerti, che si trattengano nella mia mente anche il giorno dopo e oltre, incuneate tra pensieri d’ordine quotidiano, influenzando per un po’, con la loro forza persuasiva, le mie azioni e i miei stati d’animo. Sono sempre grata ad artisti che riescono a smuovere il mio animo, che possono cambiare il corso della realtà intorno a loro e alle loro creazioni in maniera così sottile e capillare, arrivando a contagiare l’intimo delle persone come un morbo benefico.
Non mi aspettavo che questo succedesse qualche mattina fa, quando Marisa mi ha portato a visitare la mostra di suo figlio Nicola nella bella villa Cattaneo di S. Quirino. Eravamo fuori orario e potemmo entrare perché lei aveva in consegna le chiavi. E’ un privilegio unico poter visitare un’esposizione senza gente intorno che devia la tua attenzione dalle opere, che disturba quello stato emozionale simile ad un leggero innamoramento in grado di entrare in intimità con esse e, indirettamente, col loro creatore. Credo da sempre che le opere d’arte non possano essere ammirate, capite e studiate prescindendo dalla conoscenza del loro autore. L’artista e ciò che produce sono legati a doppio filo, l’uno non può vivere senza l’altro e viceversa,
scambievolmente figlio e padre, sintesi entrambi di una medesima vita e di un medesimo pensiero. Forse una definizione di arte, concetto dibattuto, è proprio questa: un’opera d’arte è da considerarsi tale se non è scindibile dal suo artefice. Essa infatti non potrebbe essere stata eseguita da nessun altro perché non c’è vita che si somigli, e tutta l’esistenza di un artista risiede nel suo operare e viceversa. Un fregio cesellato o un ritratto iperrealista non connotano alcuno, potrebbero essere stati realizzati da chiunque con manualità e buon gusto, e al fruitore non preme interessarsi ad alcunché che riguardi la vita di chi li ha eseguiti. Quando invece un’opera ci fa desiderare di sapere il più possibile su chi l’ha prodotta, e quando questa diventa ancor più interessante attraverso la conoscenza del suo autore, in essa c’è arte.
Nel silenzio di quelle sale vuote, il malinconico mistero, il nitido realismo, la muta disperazione delle foto di Nicola avevano spazio, e modo, e tempo di essere e di espandersi, catturandomi a tal punto che anche le poche parole che io e sua madre ci scambiammo furono di disturbo. Il soggetto erano le mosche, e già questo mi conquistò perché amo chi concentra le sue pulsioni creative su un unico soggetto: non c’è bisogno di molto per chi ha qualcosa da dire. Le mosche non erano ritratte nella loro vita quotidiana, ma nella loro morte, a volte nell’ agonia. Catturate da carte moschicida, palette scacciamosche e bottiglie con acqua dolce, questi insetti erano poi nuovamente catturati da uno scatto fotografico lucido ma non impietoso, quasi rispettoso della dignità di insetti da tutti schiacciati senza alcuna remora. Infatti le dimensioni ingigantite, il bianco e nero, i sapienti contrasti tra zone nitide e zone sfocate conferivano alle mosche una valenza quasi eroica e monumentale. Esse erano a volte accalcate, addossate le une sulle altre nelle pose scomposte in cui spesso sorprende la morte. Il tutto confuso ed aggrovigliato, tanto da non poter discernere i singoli insetti. Insiemi informi, quasi degli astratti in cui si distinguevano qua e là ali traslucide e trasparenti, antenne, zampe. L’ammassamento di mosche diventava un unico essere in agonia, confuso e smarrito. Altre foto sembravano meno convulse, connotate quasi dalla calma, con pochi soggetti distinguibili chiaramente: questo perché si trattava di mosche già morte, magari incastrate tra le maglie di uno scacciamosche mosso nella noia di un pomeriggio estivo. A queste mosche la morte improvvisa aveva risparmiato i tormenti di altre che erano state invece intrappolate nel vischio o annegate nell’acqua.
Questa lente di ingrandimento svelava un mondo che mi turbava non perché le mosche mi impietosissero, ma perché queste foto erano rappresentazioni del dolore universale, quello nostro al pari di quello degli insetti e di tutto ciò che vive, del nostro affannarci per la sopravvivenza, della nostra paura della morte. Queste opere erano specchi, e l’identificazione di sapore kafkiano che ne derivava era in grado di smuovere in me stati d’animo e pensieri che mi disorientavano.
Per non tradire ciò che ho espresso all’inizio di queste mie considerazioni, non posso che trovare le connessioni che legano opere e artista. Nicola ha esternato in vario modo la sua indole artistica. Prima suonando, poi, a seguito ad una malattia, attraverso la fotografia. La patologia di cui ha sofferto lo ha portato più volte al confine tra l’essere e il non essere, lo ha obbligato a sottoporsi a cure estenuanti, alla paura, al dolore. Vinta quella battaglia, i postumi lo hanno costretto a contrarre i confini del suo mondo. Questo universo a lui rasente, come tutte le porzioni della terra e dell’esistenza, umana e non, contiene tutto ciò che è contenuto nel mondo intero, come il sottomultiplo di un frattale. E’ di esso che Nicola si serve per esplicitare il suo squisito mondo interiore, in questo caso le tristi vicende di mosche che albergavano nel suo cortile. Anche il rallentamento dei suoi movimenti gli ha dato modo di soffermarsi ad osservare ciò che nella velocità generalmente sfugge.
L’opera e la vita di Nicola sono contraddistinte da un continuo contrarsi ed espandersi, in superficie e in profondità: da un mondo quasi privo di confini, con viaggi in continenti diversi nel nome della musica, a ricerche intimiste portate allo stremo, condotte nel cortile di casa attraverso gli scatti fotografici di mondi minuscoli; e ancora, questi stessi mondi, appena percepibili dalla vista e dall’animo, ricondotti a misura d’uomo per poterne cogliere la drammatica essenza. Attraverso la sua potenza analitica l’artista sembra elevare realtà infinitesimali al rango di verità universali, senza moniti, ma con un’intrinseca, amara constatazione di ciò che è la vita.