Trent’anni di vita trascorsi sotto un regime autoritario potrebbero essere la spiegazione alla selvaggia irruenza dei dipinti di Alket Bejleri: l’artista ora non può che gridare tutto ciò che per anni ha costruito e trattenuto dentro di sé. Negli autoritratti, cupi e veementi insieme, non si ravvisano tanto i tratti somatici dell’autore, quanto la sua inquietudine.
Pennellate veloci che plasmano insieme lineamenti e pathos, come il viso fosse un indumento rivoltato che rivela le cuciture e le ruvidità del suo interno.
I colori puri e accesi e l’uso di nero sono anch’essi strumenti che puntano alla comunicazione forte, senza mezzi toni, senza sfumature e colori ricercati su tavolozza. Lo stesso tipo di impatto si ha coi paesaggi, dove la natura è pretesto per comunicare la stessa cruda ed incontenibile vitalità.
In alcune opere, in particolare acquerelli, questa violenza sembra trovar pace, sopirsi per un po’ per lasciarsi andare ad una pacata liricità.
Sono quadri che, anche se in antitesi con gli altri, ne sono la catarsi.